Le foto di Marte e l’inizio dell’era digitale della fotografia
di Antonio Lo Torto
Le sonde Viking 1 e 2 sono state le prime macchine create dall’uomo ad aver operato con successo e per un periodo di tempo prolungato sul pianeta Marte. Lanciate nella prima metà degli anni ’70 giunsero a destinazione nel 1976 e per oltre sei anni inviarono sulla Terra quasi sette mila immagini del pianeta rosso.
Mi sono sempre domandato come hanno fatto… e farsi delle domande, anche alla mia età, è una buona cosa. Infatti ho fatto una scoperta molto interessante.
Utilizzare la pellicola (l’unico supporto di memorizzazione fotografica dell’epoca) non era un’operazione logicamente possibile (chi ci pensava a spedire il rullino da Marte sulla Terra?) quindi l’acquisizione digitale dei dati-immagine si prospettava come l’unica soluzione accettabile. Ma già nei primi anni settanta? Esistevano già delle fotocamere digitali in grado di scattare e trasmettere da quelle distanze?
Ebbene sì… anzi, l’origine della fotografia digitale risale proprio alle esplorazioni spaziali e alla necessità di inviare a lunghissima distanza le immagini riprese dai satelliti.
Anche se, di fatto, il primo vero e proprio brevetto di marchingegno in grado di acquisire digitalmente un’immagine appartiene alla Kodak che, una volta registrato il brevetto, infilò in un cassetto ritenendolo troppo all’avanguardia per quei tempi (vedi foto), i tecnici della NASA commissionarono ad un’azienda contractor del Massachusetts (la Itek Corp.) un convertitore analogico/digitale in grado di memorizzare e trasmettere le fotografie scattate dalle sonde. Fantastico.
Una doverosa considerazione va fatta in merito alla fotografia digitale: è vecchia quanto me, anno più anno meno.
Ma vediamo un po’ più nel dettaglio come funzionava questa “primitiva” fotocamera. Dotata di specchietti elettrici in grado di ruotare, questi direzionavano la luce verso dodici diodi di silicio fotosensibile in grado di generare una differenza di potenziale. Essendo priva di un vero e proprio obiettivo, alla messa a fuoco provvedeva l’infinitesimale spostamento degli specchietti stessi (0.1 gradi) in senso orizzontale e verticale che, alla fin dei conti, effettuavano una sorta di scansione della scena da riprendere (per scattare una foto ci voleva mezz’ora!). La corrente prodotta veniva veicolata al convertitore analogico/digitale che trasformava gli impulsi in segnali radio e che qualche altro aggeggio pensava a trasmettere nello spazio con destinazione pianeta Terra.
Ogni singolo impulso impiegava poco più di 10 minuti per coprire la distanza Marte-Terra (alla velocità della luce) e la trasformazione finale avveniva tramite un altro convertitore A/R che tramutava i segnali elettrici in luminosi imprimendoli, infine, su una “quasi” normalissima pellicola fotografica… tutto qui.
Ogni satellite Viking era dotato di due fotocamere: una posizionata sul lander (la componente che, una volta sganciata, scendeva materialmente sul suolo del pianeta) e l’altra sull’orbiter (la parte di satellite che, come dice il nome, restava nell’orbita di Marte). “La durata prevista della missione era di 90 giorni a partire dal momento dell’atterraggio, ma sia il lander che l’orbiter continuarono ad operare ben oltre i termini previsti. L’orbiter continuò a funzionare per ben 4 anni oltre il termine previsto per la missione Viking 1, inviando, insieme alla sonda gemella Viking 2, più di 1400 immagini del pianeta, con risoluzione compresa tra 300 e 150 metri e, in alcune particolari regioni, addirittura di 8 metri per pixel”.
La storia della fotografia digitale aveva così fatto i suoi primi passi…
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