Gianni Berengo Gardin, “Storie di un fotografo”. A Venezia
di Elisabetta Spinelli
A Venezia, 130 scatti divisi in otto sezioni tematiche e propongono uno spaccato selettivo dell’opera di Gianni Berengo Gardin.
Immagini intense, in bianco e nero, scattate in un arco temporale che parte dagli anni Cinquanta, di uno dei grandi ritrattisti di questo Paese, colui che meglio di chiunque altro sa raccontare, in foto e con straordinaria poesia, la gente qualunque.
Nel corso della sua opera ha dato vita a meravigliosi reportage su Venezia e Milano, sui manicomi e la legge Basaglia, sulla Biennale d’arte di Venezia e gli zingari, dentro le case e New York, a Vienna, in Gran Bretagna e per finire con il Touring Club che lo ha spinto a scoprire gli angoli più reconditi del nostro paese, fino alle fotografie finora rimaste inedite e presentate per la prima volta in questa retrospettiva.
Nonostante un archivio di oltre un milione e 500mila foto Gianni Berengo Gardin si definisce «un fotografo come tanti altri». E dice che ritrarre i soggetti più complessi rende il lavoro più semplice. “In un certo senso quello del fotografo è sopravvalutato come lavoro. Soprattutto ora che tutti vogliono diventare divi, o li fanno diventare divi. Credo solo di essere rimasto quello che ero, un fotografo“. Per essere fotografo bisogna avere fiducia nella realtà, cercarla e selezionarla, perché non tutta la realtà è fotografabile.
Guardando le sue immagini si ha l’impressione, ricorrente, che vi sia un rapporto molto intenso fra il soggetto ripreso e il contesto. E nel suo caso si tratta del soggetto umano, l’argomento principe della sua ricerca. Forse è proprio questo il punto a cui si accennava fra fotografabile e non fotografabile nelle sue immagini, una relazione non prevedibile fra soggetto e contesto. Il fotografo, del soggetto ripreso, rivela ciò che il soggetto non sa. In quanto osservatori si nota qualcosa che il soggetto stesso non può osservare.
“E’ importante continuare a fotografare – dichiara Berengo Gardin in un’intervista rilasciata a Exibhart– da questo deriva l’importanza degli archivi, la loro indispensabilità, per il continuare a raccontare, la possibilità stessa di mantenere l’immagine di un soggetto che muta. Ora fotografano tutti. Il digitale concede un aumento esponenziale del volume di immagini fotografabili. Ma, come pare, se fra qualche anno muteranno i supporti di lettura, come è già avvenuto in passato, resterà poca cosa degli archivi digitalizzati. Il digitale rischia una deperibilità maggiore delle pellicole stesse. Questa è una delle motivazioni per cui io continuo ad utilizzare la pellicola, rispetto al digitale. Il digitale è poi così freddo, metallico, così piatto. Le donne sembrano fatte di cera, non hanno più una ruga! In questo senso non mi sento un artista, piuttosto un fotografo classico, della scuola di Cartier-Bresson, di Salgado, di Kudelka. Fra gli italiani Francesco Cito, Ivo Saglietti».
Casa dei Tre oci, Venezia
Fino al 12 maggio 2013
Sito della Casa dei Tre Oci.
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