L’inganno dell’occhio e della macchina fotografica. David Claerbout al Mart di Rovereto
di Elisabetta Spinelli
Alla prima personale in Italia, l’artista belga David Claerbout mette in scena il disvelamento dei meccanismi della percezione visiva e, attraverso fotografia e video, indaga gli automatismi con cui interpretiamo questi linguaggi.
Entrando nelle sale del Mart, dedicate a David Claerbout, il visitatore si ritrova immerso in uno spazio “altro”, in una dimensione totalizzante, ovattata, completamente avulsa dal mondo esterno e dal resto degli spazi del museo. Questo passaggio di dimensione è dovuto all’allestimento, curato dall’architetto Pedro Sousa. Giocato sui toni del bianco e del nero, esso avvolge (letteralmente, perché ogni superficie è ricoperta di morbida erba sintetica) l’osservatore che si “immerge” in una totale semioscurità; costretto a muoversi lentamente, misurando le distanze, scrutando gli ostacoli, spinto a porsi in un atteggiamento di osservazione e contemplazione. Nelle parole dell’architetto stesso, “il progetto di allestimento della mostra completa l’installazione riflettendo sulla sospensione del tempo“.
Il lavoro di Claerbout, nato a Kortrijk nel 1969 – alla sua prima personale italiana dopo alcune esposizioni monografiche in musei internazionali di spicco come il Centre Pompidou di Parigi (2007), il San Francisco Museum of Art (2011), il museo della Secession a Vienna e la Parasol Unit Foundation for contemporary Art di Londra (2012) – è incentrato sulla contemplazione, sulla riappropriazione delle immagini, troppo spesso da noi fruite passivamente, senza che ci sia una reale consapevolezza dei meccanismi attraverso i quali le leggiamo. È lo stesso David Claerbout a darci la chiave di lettura non solo di questa mostra, ma della sua ricerca in generale: “Sento il bisogno di aprire lo sguardo e per questo il tempo è il mio strumento“.
L’imparzialità della visione è uno dei primi pregiudizi che l’artista tenta di scardinare. In uno dei suoi primi lavori – Untitled (Single Channel View) – Claerbout ci porta a riflettere invece sullo slittamento che esiste tra il tempo della fotografia, bloccato e frammentario, ed il tempo del video, che per quanto obbligatoriamente parziale, scorre ed è narrativo.
In quest’opera possiamo osservare una vecchia fotografia in bianco e nero: in un’aula scolastica tutti i bambini, tranne uno che sembra fissare l’obiettivo della camera, sono fotografati mentre guardano fuori dalla finestra. Lo scatto che li ha immortalati li riprende bloccati nei loro gesti, immobilizzati per sempre in quelle posizioni: sulla parete alle loro spalle la proiezione dell’ombra di un grande albero. Questa presenza rimanda inevitabilmente ad un giardino in una giornata di sole accecante, elementi questi che possiamo solo immaginare, in quanto posti fuori dal nostro campo visivo. Ad un primo, superficiale sguardo questo è tutto quello che c’è da vedere nell’opera; se ci si ferma a questo punto, però, si è in realtà perso il vero senso del lavoro dell’artista. Ad un’osservazione più attenta, che implica uno studio attivo dell’immagine e non una sua semplice visione passiva, ci si accorge di come in realtà gli alberi non siamo immobili come il resto della fotografia: le loro foglie fremono, mosse dal vento. L’operazione compiuta da Claerbout è insomma quella, paradossale, di far entrare il cinema nella fotografia (e non più solo viceversa) e di palesare lo scarto temporale che da sempre esiste tra queste due forme espressive.
Al Mart – Museo di Arte Moderna e Contemporanea – di Rovereto, corso Bettini, 43 fino al 13 gennaio 2013.
Mostra a cura di Saretto Cincinelli. Sito del Mart.
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