“Ogni sguardo un passo”: a Chiasso la Biennale dell’Immagine
di Elisabetta Spinelli
L’ottava edizione della Biennale dell’Immagine dal titolo “Ogni sguardo un passo”, pone l’attenzione su molte fotografe straordinarie, famose e meno famose.
Dal 25 novembre al 31 gennaio è possibile visitare a Chiasso (Svizzera) il M.A.X. Museo e lo Spazio Offcina, che ospitano diverse esposizioni interessanti. Sotto questo titolo si ritrovano così, in particolare, le svariate esperienze di diverse donne fotografe, o donne artiste, di ieri e di oggi, non per scrupoli femministi, né con intenti assurdamente ghettizzanti, ma per assoluta convinzione nella costanza di uno sguardo e di un modo di porsi di fronte al soggetto, qualunque esso sia. Sguardi femminili su realtà diverse in epoche differenti, che sembrano però riuscire tutti a catturare l’anima dei soggetti con particolare sensibilità e talento
Tra queste ne segnaliamo quattro che propongono gli scatti delle fotografe Leonilda Prato, Lucia Moholy, Stefania Gurdowa e Vivian Maier. Leonilda era una fotografa ambulante e girava il Piemonte, la Lombardia e la Svizzera francese con il marito, vivendo grazie a quello che guadagnava suonando e cantando. Lucia, invece, laureata in filosofia e storia dell’arte, fu fotografa, scrittrice e insegnante. Il destino artistico che accomuna Stefania e Vivian è simile: le loro immagini sono state ritrovate dopo le rispettive morti e hanno così avuto un riconoscimento artistico solo postumo.
Tra centinaia di migliaia di immagini ancora tutte da esplorare, Vivian Maier (1926-2009) ci ha lasciato in particolare alcuni autoritratti realizzati di fronte a uno specchio posto nella vetrina di un negozio, trasportato per la strada da due operai o appeso a una parete della casa della famiglia dei cui figli si occupava come governante. A colpire particolarmente in queste immagini, che per il resto ci mostrano una riservata e insospettabile “Mary Poppins”, è lo sguardo sereno e aperto, modesto ma determinato, che lancia a se stessa (e ai posteri?) da sopra il mirino a vetro smerigliato della sua Rolleiflex. Uno sguardo “educato”, il suo, che sottintende un movimento continuo verso il proprio soggetto, che non è in trepida attesa ma che va scovato, individuato in mezzo a mille volti, a mille situazioni che si susseguono a ritmo incessante e che l’occhio del fotografo deve essere sempre pronto a cogliere. Passo dopo passo, deve essere però in grado anche di controllare il proprio stato d’animo, senza lasciarsi travolgere da quell’eccitazione che potrebbe condurlo su false piste, con il rischio di farlo finire in un vicolo cieco.
Lucia Moholy (Praga 1894 – Zurigo 1989), pur essendo considerata l’autrice della più importante opera di documentazione riguardante l’eccezionale esperienza del Bauhaus, non ha mai avuto in tempi recenti l’onore di una mostra personale, continuando a essere considerata in primo luogo come la moglie del più celebre e celebrato László Moholy-Nagy. Nella sua fotografia testimonia con tagli inconsueti l’atmosfera innovativa della didattica della scuola, in particolare con la sezione dei ritratti degli stessi maestri del Bauhaus. Attiva in corsi di fotografia, Lucia si distingue per la sua capacità analitica e successivamente partecipa all’esposizione Film und Foto a Stoccarda. La sua attività di studiosa è particolarmente documentata nel suo testo A Hundred Years of Photography, pubblicato a Londra nel 1939. Le sue inaudite “incursioni” toccano anche gli ambiti della critica e della pedagogia dell’arte.
Più “classici”, nell’ambito della storia della fotografia, ma ugualmente interessanti per la loro singolarità, sono i percorsi seguiti da Leonilda Prato (Pamparato 1895-1958), fotografa ambulante quasi per caso collocata tra il Piemonte e la Svizzera romanda nei primi decenni del Novecento. La sua produzione è stata riscoperta solo di recente grazie a una prima incursione nel suo eccezionale archivio, e la mostra allestita a Chiasso è la prima in assoluto a offrire una panoramica della sua opera secondo criteri artistici.
La stessa cosa si può dire della sua contemporanea polacca Stefania Gurdowa (Bochnia 1888-1968), la quale vede passare nel suo studio centinaia di persone nei cui sguardi sembra trapelare la consapevolezza che il loro mondo sta per essere sconvolto dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Sconvolgimenti che influenzeranno fortemente la vita della stessa fotografa, tanto che le sue immagini, considerate perdute, riaffioreranno da un nascondiglio ricavato nel muro del suo studio soltanto una decina d’anni fa. Senza parlare del caso limite, quello di Heinrich Böhler (1881-1940) e delle fotografie da lui scattate durante gli anni Dieci del XX secolo nell’entourage viennese di Gustav Klimt, giunte inaspettatamente in Ticino senza che il nome del loro autore fosse tramandato.
“Ogni sguardo un passo” è però un motto che si applica perfettamente anche agli artisti e alle artiste di oggi, nonostante i contesti e le situazioni siano mutati. Guardare, esplorare, magari con più attenzione che nel passato, e magari con maggiore sospetto e minore rispetto da parte dei potenziali soggetti, rimane il pane quotidiano di Claire Laude (1975), Piritta Martikainen(1978), Stefania Beretta (1957), Anna Leader (1979), Sara Rossi (1970), Anne Golaz(1983), Nicole Hametner (1981), Giovanna Silva (1975), Sabrina Biro (1981) e Barbara Lehnhoff (1983), Daniela Ray (1960), oltre alle artiste Elisabetta Diamanti (1959), Giusi Campisi (1966) e Valérie Losa (1980).
O ancora l’interessantissima proposta di un’esposizione intitolata Her, in cui la Fondazione Rolla offre una selezione di una trentina di immagini di donne fotografe che indagano i diversi temi, quali il ritratto, l’archeologia industriale, lo still life, le architetture, i paesaggi. La collettiva abbraccia uno spazio temporale di oltre un secolo, partendo da un’albumina del 1874 di Julia Margaret Cameron fino alle immagini più recenti di Vera Lutter e Dodo Jin Ming.
Fino al 31 gennaio 2013.
Recent Comments