La sensibilità ISO delle pellicole e del digitale. 6 consigli per evitare “rumori” molesti

foto n.1: ho avuto una Mamya M645 AF per un po’ di tempo… pellicola ILFORD XP-2 400 Super, “tirata a 800” e trattata con C-41 – ph.: A. Lo Torto, 2008 New York City
di Antonio Lo Torto
Oggi affrontiamo ancora un argomento un po’ tecnico, di cui abbiamo soltanto accennato negli articoli passati. Trattandosi di uno dei tre “cardini” su cui si fonda una corretta esposizione, è necessario che il fotografo ne conosca a fondo le proprietà. Vedremo inoltre come la fotografia digitale non sia esente dal problema dell’effetto grana, da molti ritenuto appannaggio soltanto di quella chimica, quindi, dopo un po’ di teoria, vi esporrò 6 semplici accorgimenti per cercare di limitare questo problema.
La sensibilità delle pellicole
Nella fotografia chimica – quella che sfrutta la pellicola come strumento d’incisione delle immagini – ISO è l’indice utilizzato per determinare la sensibilità dell’emulsione utilizzata. I valori più comunemente impiegati sono: 50, 100, 125, 160, 200, 400, 800, 1000 e 1600. Quanto più questo numero è basso, tanto meno la pellicola è sensibile e le dimensioni dei grani di alogenuro d’argento che la compongono risultano fini. Aumentando le dimensioni dei cristalli fotosensibili, incrementiamo la “capacità ricettiva” della pellicola, la rendiamo più sensibile alla luce ma, ahimè, accresciamo di conseguenza la sua “granulosità” e la perdita di dettaglio che questa cosa comporta. Le pellicole con grana molto fine consentono di riprodurre immagini molto nitide, mentre quelle a grana grossa, solitamente le più sensibili alla luce, sono più indicate per la ripresa in condizioni di scarsa luminosità o per ritrarre soggetti in rapido movimento. Fotografando con materiali ultrasensibili, oppure sottoponendo un’immagine ad elevati ingrandimenti, finiamo per rendere visibile ad occhio nudo la sua struttura granulare. Non c’e niente da fare: le foto sono più brutte! E’ sicuramente possibile sfruttare la grossezza della grana a fini artistici, possiamo anche attaccare nostra nonna al tram e quant’altro ci pare e piace, ma le foto con meno dettagli (e la grana in evidenza) sono più brutte. Mi contraddica chi può farlo. Sono qui che aspetto…
Pertanto le pellicole a bassa e bassisima sensibilità (25-50 ISO), caratterizzate da una struttura granulare finissima, risultano particolarmente adatte in tutti quei casi in cui sia richiesta la massima nitidezza dei dettagli: fotografia naturalistica e macrofotografia in primis, ma più che altro in quelle situazioni in cui siano necessari livelli elevati d’ingrandimento, come nella pubblicità per la cartellonistica, nelle rilevazioni aeree, nelle riproduzioni in scala 1:1, ecc. A causa della ridotta sensibilità, fotografando con pellicole di questo tipo, è necessario disporre di una sorgente di luce molto intensa… ovviamente.
Per chi fosse interessato alla descrizione dettagliata di ogni singola pellicola oggi in commercio consiglio vivamente di visitare i seguenti siti:
– Fujifilm Italia: pellicole e pellicole professionali
– Kodak Italia: consumer film e pellicola professional
– Agfa, oggi prodotta dall’azienda tedesca Lupus Imaging&Media: film/analog cameras
Il “rumore” nel digitale

Par condicio. Immagine A: sensore CMOS “autopulente” di Canon. Immagine B: sensore CCD montato sulla Nikon D60 (fonte: Internet)
Nella fotografia digitale, l’indice ISO misura la sensibilità del sensore. Il principio è il medesimo della fotografia chimica (basso valore ISO = bassa sensibilità e viceversa) e, proprio come si fa scattando con le pellicole, si andranno ad utilizzare valori di indice elevati quando le condizioni lo richiederanno: quanto più la scena inquadrata sarà poco illuminata e quanto più la velocità di scatto dell’otturatore risulterà necessaria, tanto più alto dovrà essere il valore ISO che dovremo impostare sulla nostra fotocamera.
Esempi classici: 1) siamo alla recita di nostro figlio in parrocchia e non possiamo usare il flash per non disturbare chi ci sta intorno; 2) allo stadio, durante una partita di calcio: la distanza dalla scena di gioco non ci da la possibilità di sfruttare il lampo del flash, ma il nostro tele da 400mm ci consente di avvicinarci a sufficienza al nostro beniamino che sta per tirare una punizione; vogliamo “congelarlo” proprio mentre sta per calciare il pallone; 3) ci troviamo al museo del Louvre, è un uggiosa giornata di dicembre sulle rive della Senna, non possiamo fotografare la Monnalisa con il flash – che, tra l’altro, finirebbe per “sparare” sul vetro di protezione del dipinto – la luce ambiente è quelle che è: praticamente nulla. ecc. Tutte situazioni “ideali” in cui l’impostazione della nostra fotocamera deve obbligatoriamente prevedere un settaggio elevato della sensibilità (sarei andato volentieri avanti con l’elenco degli esempi: in fila in galleria durante un’ingorgo autostradale; a Stoccolma il giorno di Santa Lucia; in un ristorante a lume di candela senza rompere la magia del momento… poi mi è stato fatto notare che non sto scrivendo un romanzo! ok, continuiamo a tarpare le ali di potenziali autori di bestsellers), ma andiamo avanti.
Dovendo effettuare una ripresa che necessita di un valore di sensibilità ISO elevato, è come se richiedessimo al nostro sensore di andare a captare quei segnali luminosi più deboli che, affinché vengano correttamente digitalizzati dal microprocessore della fotocamera, andranno necessariamente “amplificati”. Come ho già detto in un precedente articolo, per ironia della sorte, la fotografia digitale soffre di un “disturbo” molto simile all’effetto grana della fotografia chimica, il rumore.
Che cos’è il rumore?
I sensori delle fotocamere digitali sono costituiti da una serie di diodi fotosensibili posizionati l’uno accanto all’altro che trasformano le particelle di luce incidente (i fotoni) in segnali elettrici. Quest’ultimi, rappresentazione “fedele” dei fotoni captati, sono sovente accompagnati da altri tipi di segnali, spuri, che, per un motivo o per l’altro, disturbano la conversione e la registrazione delle immagini da parte del processore della macchina fotografica. Questa tipologia di disturbi sono causati sia dalla radiazione ultravioletta, che riesce a passare nonostante il filtro UV di solito posto davanti al sensore della fotocamera, sia da alcuni singoli fotoni “impazziti” (non molti, per fortuna) che anziché venire intercettati dal diodo rimbalzano, a causa dei riflessi interni, da un pixel all’altro e finiscono “fuori posto”. Inoltre, una volta captati dal sensore in ingresso, i segnali elettrici in uscita non sono abbastanza ampi da poter essere utilizzati subito dal processore e vanno, pertanto, amplificati. E più i segnali sono deboli maggiore dovrà essere il grado di amplificazione. Chi ha studiato un po’ di fisica elettronica sa che ogni amplificazione comporta sì un aumento del segnale utile, ma anche una certa quantità di ulteriore disturbo, generato dal processo stesso, che andrà ad incrementare quello già di partenza… Tutti assieme, questi disturbi vanno ad “inquinare” il segnale prodotto dal sensore e la somma di tutte queste “noie” elettroniche è ciò che si definisce rumore.
NOTA BENE: vogliamo far presente che sto’ benedetto segnale che esce dal sensore, proprio per questa sua “natura elettronica”, è ancora un segnale analogico. In pratica possiede gli stessi difetti di un segnale audio in uscita da un registratore a cassette. Se ascoltiamo la musica a volume moderato, difficilmente saremo in grado di percepire il caratteristico fruscio di fondo del nastro, mentre aumentando il volume (ossia amplificandolo) il disturbo diventa sempre più evidente.
Ok, ma come si manifesta il rumore?! Come ho già detto in precedenza, il rumore si manifesta come una sorta di puntinatura diffusa sull’immagine (come un canale televisivo mal sintonizzato) e può essere tanto monocromatico (luminance noise), quanto colorato (chroma noise). Principalmente è visibile nelle aree più uniformi (come il cielo, ad esempio), o particolarmente scure e con poco dettaglio. Ingrandendo un’immagine, poi, diventa evidentissimo (vedi foto n.3).
Altri fattori che peggiorano la situazione. Oltre che dalla sensibilità ISO impostata sulla fotocamera, il rumore è influenzato da alcuni ulteriori elementi che ne determinano l’entità in modo più o meno diretto:
- dalla dimensione del sensore: grande sensore = meno rumore. E viceversa.
- dalle dimensioni dei singoli pixel: a parità di dimensioni del sensore, un sensore con più megapixel risulterà più “rumoroso”.
- dalla temperatura del sensore: una macchina surriscaldata genera più rumore.
- dal tempo di posa: un tempo di scatto lungo (oltre il secondo) causa maggiore rumore di uno breve.
Alcuni consigli su come contenere il rumore delle immagini digitali

foto n.4: Lunga esposizione in luce ambiente con Canon D60 a 125 ISO (su treppiedi, ovviamente!). Altare Maggiore, Santuario di S. Maria dei Miracoli presso San Celso, Milano – ph.: A. Lo Torto per Co.Es.Mi., 2005
1. Il primo suggerimento che vi do è anche quello più ovvio (comunque non bisognerebbe mai dare niente per scontato): per quanto vi risulta possibile, impostate sempre il valore ISO più basso. Per cui, soprattutto in condizioni di scarsa luminosità e di tempi lunghi, l’uso del treppiedi per tenere la camera il più possibile stabile è come sempre caldeggiato (vedi foto n.4)
2. Dal momento che l’elevata temperatura del sensore è uno dei fattori determinanti di generazione del disturbo, cercate sempre di “raffredare” la macchina prima di scattare: spegnetela sempre tra una pausa e l’altra ed evitate che venga colpita troppo a lungo dai raggi del sole. Riparatela in una borsa appropriata.
3. La compressione JPEG è una fonte di rumore digitale. Se dovete effettuare degli scatti con la macchina impostata su valori ISO elevati, usate, quando possibile, la compressione minima.
4. Software integrato. Guardate la foto n.2: ho preso la prima cosa colorata che mi passava tra le mani: i cubetti di legno con cui gioca mio figlio. Li ho fotografati con una Canon EOS 1D – Mark III impostando la macchina prima a 100 ISO (A) e poi a 3200 (B). Come potete notare dal particolare ingrandito (foto n.3), il software di riduzione del rumore presente nella fotocamera ha notevolmente contenuto il problema della grana, sebbene non l’abbia ridotto del tutto. Questa soluzione ci viene abbastanza in soccorso e manifesta tutti i suoi pregi soprattutto nelle esposizioni prolungate (oltre 1 sec.). Fatta eccezione per quelle di fascia bassa, praticamente tutte le moderne fotocamere dispongono di un software interno di controllo del rumore. Probabilmente, le macchine fotografiche più costose saranno equipaggiate con algoritmi più efficaci.
5. Softwares dedicati. Esistono diversi programmi in grado di ridurre il rumore digitale, primo fra tutti il nostro amatissimo Adobe Photoshop (che è quello che uso io, con tutti i suoi pro e contro). Ad ogni modo vi indirizzerei a questo sito per dare un’occhiata all’elenco dei softwares in commercio realizzati specificatamente per questo problema. A quanto pare, il più “titolato” di tutti sembra essere Neat Image, oggi arrivato alla versione 6.2. Ad essere sincero non l’ho mai provato; comunque, visto il costo non esagerato, se qualcuno volesse fare un test non sarebbe poi una grossa perdita (se non di tempo!). Forse un giorno riusciremo a dedicare un po’ di spazio alle prove di questi programmi, per ora chiedo a qualcuno dei lettori, nel caso avesse esperienze in merito…
6. Un’ultimo consiglio per chi non ha una super fotocamera equipaggiata con un sensore di due metri quadrati e software ultima versione: subito prima dello “scatto più importante”, che per forza di cose dovrete eseguire esponendo il sensore per un tempo superiore al secondo, scattate un fotogramma nero (magari tenendo il tappo dell’obiettivo sulla lente) e poi “sottraetelo” dall’immagine con un programma di foto editing come Photoshop. Questo processo viene applicato in automatico dalle fotocamere più moderne di gamma medio-alta. Occorre dire che anche senza questo sistema, le fotocamere di oggi producono molto meno rumore di quelle delle prime generazioni.
Si ringrazia http://www.3megapixel.it
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