Jay Mark Johnson e la “slit-camera” che fotografa… il trascorrere del tempo.
di Antonio Lo Torto
E’ possibile in fotografia mettere in risalto il tempo rispetto allo spazio? Certamente sì. Tutti noi abbiamo ben presenti idilliache immagine di paesaggi scattate con tempi di apertura lunghi, in cui fiabeschi corsi d’acqua in mezzo a boschi assumono le sembianze della seta… basta avere un treppiedi, chiudere il diaframma a f/11 e lasciare che il nostro dito faccia il resto.
Ma c’è qualcuno, a quanto pare, a cui questa tecnica va un po’ stretta. Jay Mark Johnson, un eclettico artista californiano, è infatti in grado di realizzare fotografie particolarissime. Tanto da sembrare elaborate con il Photoshop, ma non è così. Infatti Mark fa uso di un apparecchio davvero fuori dal comune (che costa la “modica” cifra di 85 mila dollari): una slit-camera, incredibilmente capace di registrare sulla pellicola il trascorrere del tempo.
La slit-camera fa parte della nobile e blasonata famiglia delle macchine stenoscopiche. La stenoscopia è un procedimento fotografico che sfrutta il principio della camera oscura per la riproduzione delle immagini. Una fotocamera di questo tipo utilizza come obiettivo un foro stenopeico (dal greco “stenos opaios”, stretto foro), che in pratica altro non è che un semplice buchino posizionato al centro del lato frontale della macchina.
In questo genere di fotografia, la distanza tra il piano pellicola e il foro stesso determina la lunghezza focale del sistema e, di conseguenza, l’angolo di ripresa. La nitidezza, seppur non eccelsa, si estende per tutti gli oggetti inquadrati, creando in pratica una profondità di campo illimitata.

fig.A: schema di funzionamento di una double-slit camera (courtesy of Stanford University) – fig.B: Ilford Envoy modificata a slit-camera da Richard Kaye
Nello specifico, una slit-camera, anziché sfruttare come obiettivo un vero e proprio foro, è dotata di un’apertura a fessura (una sorta di “taglietto” o strisciolina ritagliata – vedi fig.B) che, rispetto alla perpendicolare al piano-pellicola, può essere verticale, orizzontale o entrambe (in quest’ultimo caso si parla di double slit-camera e sulla macchina – dotata di due piastre separate e posizionate a distanze diverse, una con fessura verticale e l’altra orizzontale, che vanno a “sovrapporsi” sul piano-pellicola – è possibile determinare due lunghezze focali differenti! Una verticale e l’altra orizzontale, appunto… vedi fig.A).
Ma torniamo a Mark Johnson. Allora, dicevamo che per mezzo della sua slit-camera, l’artista riesce a registrare il trascorrere del tempo: ciò che nella realtà è statico si trasforma in strisce orizzontali colorate, mentre ciò che si muove – il soggetto che Mark vuole mettere in evidenza – viene impressionato con dovizia di dettagli.
Le onde del mare che sbattono sulla riva, le mani in movimento di un maestro di Tai Chi e un’auto che sfreccia in velocità vengono immortalati attimo per attimo, ogni volta, cioè, che passano davanti all’obiettivo. Proprio come una sorta di elettrocardiogramma che registra ogni successivo battito del cuore, la profondità di qualcosa non ci viene dalla sua distanza rispetto all’orizzonte o dalla sua dimensione relativa, ma dal ritmo del suo movimento. Guardare il lato sinistro di una fotografia scattata da Johnson non vuole dire guardare qualcosa che si colloca a sinistra nello spazio, bensì guardare qualcosa che viene prima… nel tempo!
La novità sta tutta nell’utilizzo inconsueto della superfotocamera. Johnson (architetto, pittore, attivista politico, cineasta esperto di effetti speciali, designer e studioso di scienze cognitive) probabilmente non se ne sarebbe uscito con quest’idea se non fosse stato per una scoperta casuale. Infatti l’acquisto della costosissima macchina fotografica era finalizzato a ben altri scopi: la ripresa ad altissima definizione di paesaggi di grandi dimensioni (facendo letteralmente un panorama “a fettine”, una slit–camera di questo genere, spostandosi in una direzione – alto/basso, destra/sinistra, ecc.- o ruotando su stessa, consente di riprodurre immagini enormi con una dovizia di particolari mai vista prima. Viene prevalentemente utilizzata nella fotografia panoramica di altissimo livello cinematografico e dai militari). Orbene, avendo scoperto gli effetti accidentali provocati dal movimento sul risultato finale e avendoli trovati particolarmente “poetici” (piove sempre sul bagnato..), Mark ha sperimentato tenendo fissa la fotocamera e concentrando il fuoco su aree ristrette.
Le immagini che vedete sono il risultato. Tenendo ferma la macchina vengono impresse sulla pellicola soltanto strette strisce verticali. Qualunque soggetto in movimento che si trovi a passare per il piano inquadrato in quel momento finisce nel campo. Controllando il posizionamento dell’obiettivo, Johnson riesce a riprendere più “strisce” di piani differenti in un tempo relativamente breve e a ricomporre il tutto mettendole insieme. In parole povere, ogni foto è una specie di “collage” di centinaia di foto molto strette messe una accanto all’altra.
Il modo in cui la fotocamera è in grado di staccare il soggetto dallo sfondo consente a Johnson di rievocare gli stati d’animo delle piazze vuote che dipingeva De Chirico, o il senso di straniamento e di abbandono di cui parlava Sartre. L’artista sostiene di aver scelto questo genere di fotografia “insolita” perché in questa maniera riesce a “ricreare una sorta di specchio sulla natura umana, capace di espandere la nostra visuale sulla realtà – inoltre – Ci dimostra che ciò che vediamo è solo retaggio delle nostre tradizioni culturali e delle distorsioni prodotte dalla percezione.” Ok, belle parole… diciamo pure che Jay Mark Johnson ha anche la fortuna di potersi permettere certi strumenti! Ma non facciamo gl’invidiosi, dai… Sono immagini davvero stupende.
(Un vivo ringraziamento all’Autore e al blog www.slate.com per le immagini presenti in quest’articolo).
Sito di Jay Mark Johnson.
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